Savino Muraglia, olio ergo sum




Gli oliariani, la nuova corrente ortodossa dei vegetariani, li puoi trovare solo in Puglia.
Per diventare "oliariani" basta assumere l'olio extravergine d'oliva in dosi extraelevate sin da piccoli e non importa se pizzica o é amaricante perché quello è il corredo aromatico indispensabile per crescere sani e forti.
Lo pensa soprattutto Savino Muraglia che abbiamo incontrato ad Andria tra i suoi uliveti dove l'oro ha il colore del verde smeraldo intenso e dove gli ulivi sopravvivono agli stessi uomini che li hanno curati e a loro volta donati e consegnati all'amore dei propri figli e dei figli dei figli.
L'Antico frantoio Muraglia produce olio da 5 generazioni ed é lo specchio di quella Puglia che ha la capacità di trasformare questa straordinaria materia prima, di cui possiede il 40 % del prodotto nazionale, in spremute di vita e di olive.



Per diventare olivicoltori bisogna studiare o basta nascere ad Andria tra gli ulivi di Coratina?
L’olivicoltura è a tutti gli effetti un’attività imprenditoriale e come tale ha di base una preparazione tecnica, professionale e della sana cultura aziendale. Ovviamente il fatto di essere circondati da migliaia di ulivi ti aiuta a realizzare questo lavoro in modo più intuitivo.



Quanto è difficile fare un buon olio, e quanto farne uno eccellente? 
Fare un olio buono non è impossibile, per farne uno eccellente il segreto è quello di non accontentarsi mai del livello raggiunto e di migliorarlo di anno in anno.


L’olio come il vino è territorio è storia è racconto. Di cosa ci parla il tuo olio? 
Il mio olio parla di famiglia, di origini antiche, di territorio a grande vocazione olivicola prima ancora che olearia.  Allo stesso tempo parla di freschezza, di profumi, di emozioni che suscita quando lo assaggi e di grande riconoscibilità in Italia e all’estero.


I tecnici dicono: l’olio migliore è sulla pianta, nelle olive. Ma poi per arrivare in bottiglia la strada è lunga? 
I tecnici hanno perfettamente ragione perché a differenza del vino, in frantoio si può solo contribuire a trasformare qualitativamente ciò che di buono la natura e gli agricoltori sono stati in grado di produrre.  La strada è lunga se si ha come obiettivo la qualità.



Esiste come per il vino e le sue annate uno stile aziendale? (Riconosciamo uno stile di frantoio?) E chi è il tuo "oleologo" ? 
Ogni azienda si contraddistingue dallo stile del prodotto che realizza e dal modo in cui lo comunica.  I tratti essenziali delle varietà degli oli da noi prodotti sono riconoscibili ogni anno.  L’oleologo in azienda è il mio papà Vincenzo coadiuvato da un team di persone competenti che rappresentano la storia e il futuro del nostro frantoio.


L’olio è un condimento o un ingrediente? L’impiego in cucina più creativo in cui hanno o hai usato il tuo olio? A Savino Muraglia hanno mai dedicato una ricetta?
L’olio è un ingrediente e il suo uso in cucina è fondamentale.
L’impiego più creativo è stata la produzione di una maionese con il mio olio Fumo, ad opera di un giovane e brillante chef. Personalmente esorto i cuochi di ogni regione e nazionalità ad utilizzare i miei oli nelle loro preparazioni e nelle ricette tradizionali per esaltarne gusto e sapori attraverso le peculiarità organolettiche dei nostri singoli prodotti.


Riconoscibilità è anche un packaging vincente: quanto ha influito la confezione dell'olio e il marketing nel successo della tua azienda? 
Partendo dall’assunto che il punto di forza della azienda Muraglia sono: la qualità dell’olio e la sua produzione annuale ininterrotta da oltre 5 generazioni, senza dubbio la scelta dell’habilage della bottiglia e l’azione del marketing  hanno sostenuto il processo di diffusione dei nostri prodotti in ben 44 paesi nel mondo. Nel comparto oleario, a differenza di quello del vino, il packaging spesso è stato trascurato e non commisurato al valore intrinseco del prodotto. 



La linea dei tuoi prodotti è completa: dal biologico al denocciolato, passando per i fruttati intensi e medi, fino all’aromatizzato. C’è un olio che non hai ancora prodotto? Pensi ci sia ancora da innovare in questo campo? 
Ci sono oli da produrre e tanti progetti ancora da realizzare, frutto di ricerca studio ed esperienza sul campo.  Il percorso dell’innovazione è lungo e faticoso ma è l’unica strada che consente, ad un prodotto “commodity” come l’olio, di distinguersi e diventare protagonista sulle tavole dei consumatori.



La richiesta di olio d’oliva extravergine è aumentata a livello mondiale e la Spagna, lo storico competitor in volumi di produzione batte l’Italia 1 a 0. Quando la tecnologia si sostituisce alla storia la qualità è garantita lo stesso? E cosa pensi delle nuove zone di coltivazione, degli allevamenti intensivi meccanizzati e impianti a spalliera? 
La tecnologia ha contribuito in maniera tangibile al miglioramento della qualità dell’olio extravergine di oliva specie nell’ultimo trentennio. Basti pensare al passaggio epocale dei metodi di estrazione dell’olio: da quello tradizionale al ciclo continuo che ha migliorato la qualità dell’olio, le caratteristiche organolettiche, la chimica,  la stabilità, l’igiene, l’ecosostenibiltà.
Sugli allevamenti intensivi, nei quali io non mi riconosco, ho delle contenute riserve ma resto fortemente contrario all’introduzione di impianti di varietà non italiane. Vedere le conversioni di vecchi oliveti o di nuovi terreni in distese di Arbequina mi sembra un clamoroso autogol che contribuirà a portare il risultato della partita Spagna-Italia 2 a 0.  L'Italia e la Puglia posseggono un patrimonio varietale di assoluta superiorità da salvaguardare e valorizzare e che permette di collocare gli oli provenienti da queste varietà ai vertici dell’eccellenza olivicola mondiale.


Sei diventato un mito tra i giovani imprenditori con una carriera da imitare. Per fare un olio di successo serve una “capatosta”’ o altro?
Per fare un olio, un vino, un tarallo e qualsiasi prodotto alimentare di altissima qualità serve: una capatosta, un patrimonio conoscitivo che si eredita e/o che si coltiva negli anni, una smisurata passione che ti aiuta a superare le difficoltà e una grande cultura imprenditoriale. Senza quest'ultima potremo fare i prodotti più buoni del mondo ma non saremmo mai in grado di farne apprezzare il valore che meritano. E' il mercato che ne decreta il successo o il fallimento.




(foto: sito web "Antico Frantoio Muraglia")



Podere 29: Giuseppe Marrano, la mia vigna al centro del mondo




Terra Mia: Da sempre l’uomo e il vino hanno avuto storie parallele ma negli ultimi anni fare il vignaiolo è divenuto un mestiere d'arte.
La nuova consapevolezza del rispetto per la natura e la tutela dell’ambiente impongono al produttore obblighi etici e morali. Oggi più che mai rispettare il ciclo di un ecosistema vitale tra vigna, uomo e territorio significa fare vino secondo natura ed essere custodi di un territorio. Fare vino è un lavoro di passione, sacrificio e attesa. 
Ecco alcuni esempi di produttori di sogni e di vino vicino a me per luoghi e radici.

Podere 29. Giuseppe Marrano. Gelso d’oro - La vigna, l’uomo, il vino.
Il triangolo perfetto tra il cielo, il mare e la terra della Daunia nel tavoliere a nord della Puglia. Giuseppe, l'anima del Podere, quando è a casa vive tra le sue vigne e crede fermamente che quei luoghi siano il centro del mondo che gira tutto l’anno per raccontare della sua terra e dell suo vino. 




Viticoltori si nasce o si diventa? E come nasce il desiderio di coltivare un vigneto?
Nel mio caso si diventa ma forse era nel mio destino. Da piccolo volevo fare il meccanico e lavorare nel mondo delle automobili, passione che ancora oggi mi travolge ma in modo diverso. La vigna è un qualcosa che ti seduce, ti ammalia con i suoi tempi e i suoi colori fino a che non ti fa suo ed è semplicemente amore.


Descrivici in tre righe il tuo terroir e la tua filosofia di produzione 
La ferma convinzione che l’agricoltore si deve trasformare da semplice produttore a custode del proprio territorio. Regime biologico con un occhio attento alla biodinamica vera risorsa per gli anni che verranno.


Dove sei più felice, in un vigneto o in una cantina? 
Sicuramente nel mio vigneto. Passeggiare la sera tra i filari dopo una giornata pesante e vedere con i propri occhi il ritmo della natura è un qualcosa a cui non potrei mai rinunciare.


Qual è ad oggi il tuo traguardo più grande? 
Quello che ancora deve arrivare.
Siamo una realtà giovane in continua crescita. Girare il mondo e far conoscere il Nero di Troia è senza dubbio il mio obiettivo piu’ grande.


Come ti piacerebbe definissero il tuo vino: artigianale, naturale, biologico, vino vero o..?
Un autentico prodotto della terra. Ci si dimentica spesso che tutto ha origine dalla terra. Mi piace consigliare a tutti i nostri clienti di venire a fare una visita non in cantina ma in vigna, il vero cuore pulsante di tutto.


Con quale varietà d’uva non coltivata da te al momento ti piacerebbe misurarti? E quale varietà secondo te è immeritatamente ignorata?
Al momento sono concentrato esclusivamente sul Nero di Troia ed il Fiano Minutolo due vitigni che non hanno ancora raggiunto i palcoscenici che meriterebbero e che per certi versi sono ancora troppo spesso ignorati.


Che rapporto hai con gli altri produttori del tuo territorio? Esiste una squadra e un interesse comune? 
C’è un rapporto di stima professionale e per certi versi di riconoscenza per chi ha iniziato prima di noi un percorso di conoscenza e valorizzazione del territorio.


Come influisce il tuo lavoro sulla tua vita privata? I tuoi affetti e la tua famiglia sono fieri di te o ti avrebbero voluto “un colletto bianco” con orari di lavoro prestabiliti e senza stagionalità? 
Sicuramente posso dire di non avere una vita noiosa. Tutto è scandito dai tempi della vigna che rappresenta una sorta di orologio sacro. Un giorno sono in azienda a Tressanti e due giorni dopo sono a Taiwan a presentare i miei vini. In tutto questo la mia famiglia mi appoggia a pieno e mi sostiene.


Si diventa vecchi ma mai quanto una vigna, che ci sopravvive. Dove ti trovo tra 20 anni? 
Tra 20 anni mi troverai sempre innamorato delle mie vigne della mia azienda e dei miei vini, un giorno a potare e l’altro a promuovere l’oro che questa splendida terra mi dona ogni anno.





Interviste dal futuro: Ernesto Iaccarino, l'anima e il dominus del Don Alfonso




Per capire il futuro bisogna intervistarlo ed io l'ho fatto in una serie di incontri con alcuni figli dei più famosi e noti chef italiani. Nel loro racconto c'è il futuro dell'alta ristorazione "fatta in Italia", dell'eccellenza, dell'ospitalità in stile tutto italiano, le nuove idee e le attuali tendenze.

A sud, verso il sud, non ci arrivi per caso. Il mare è ovunque, il cuore batte più forte e "la gente lavora in silenzio".  Più a sud, dove per capitarci la strada è tortuosa e lunga, trovi Capri di fronte ad un orto e il "Don Alfonso".  Sei a Sant'Agata Sui Due Golfi e qui, mentre l'odore di agrumi, ulivo e rosmarino riempiono l'aria, lo chef Ernesto Iaccarino, ci parla di ospitalità, rispetto, storia e costume di una famiglia che ha la memoria del cibo dal 1890.



Sei tu che hai cercato la cucina o è la cucina che ha trovato te?
In realtà ci siamo cercati vicendevolmente. Mi sono laureato in Economia e Commercio all'Università statale di Napoli e dopo aver conseguito il Master in Economia, ho lavorato alla Price Water House di Milano come revisore di bilanci, ma l’attrazione verso la cucina mi ha spinto a tornare a casa.


Una infanzia di profumi, sapori, odori. Il ricordo più lontano va anche per te ai giochi sotto il tavolo della cucina?
La passione per cucina è sempre stata dentro di me, il mio mondo, il mio ricordo è la cucina. Dedico al mio lavoro mente e cuore, tutti i giorni, senza mai mollare. Non può quindi propriamente dirsi “lavoro”, per me è una missione!


Qual è il sapore fisso nella tua mente, la tua “madeleine"? 
Lo zabaione al caffè. Un rito che mia mamma o mia nonna preparavano tutte le mattine. Lo prendevo prima di andare a scuola. Questo sapore avvolgente di uova sane, con uno spruzzo di caffè era una sferzata di energia. Ancora oggi nei giorni in cui mi sento più stanco, mi rifugio nei miei ricordi d’infanzia. Il mio zabaione al caffè che deve rigorosamente essere abbondante!


Come si svolge la tua giornata tipo? Raccontacela 
Per prima cosa vado in cucina a salutare tutti i miei collaboratori poi controllo cosa hanno portato i pescatori. Arrivano dopo tutte le materie prime dalla nostra azienda agricola biologica e comincia la fase della pulizia di ortaggi e verdura. Nel frattempo rispondo alle diverse e mail che ricevo quotidianamente e controllo la contabilità di cui effettivamente si occupa mia madre. Io ho una passione per i numeri però il mio mondo è la cucina.
Seguo tutti i servizi, dalla preparazione all’esecuzione finale. Si bilancia, si aggiusta insieme, si discutono sempre le ricette, anche quelle che sembrano finite. Alle 12,30 comincia il servizio del pranzo, ma sapere quando si finisce è impossibile poiché c’è il dopo pranzo, ovvero il momento in cui mi relaziono con i miei ospiti, che vengono in cucina e commentano l’esperienza che hanno vissuto a tavola.  È un momento questo di grande arricchimento umano per me.
Poi di corsa una doccia e di nuovo pronto per il servizio della cena al quale segue il momento in cui incontro gli ospiti dopo cena: lunghe chiacchierate in giardino fino a tardi.  Una o due volte a settimana cerco di praticare uno sport che amo da sempre, il tennis. Questo succede nelle ore più strane proprio per non rinunciarvi.


Genitore, maestro di vita, insegnante : nella vita di un ragazzo è una fortuna avere questi tre ruoli in un'unica figura? Un padre “ingombrante” è una spinta per superare se stessi o solo uno stimolo per superare il “maestro”? 
Non è stato facile essere figlio di Alfonso Iaccarino perché è stato sempre un uomo esigente prima di tutto con sé stesso ed poi anche con i figli.
Da me e mio fratello ha sempre voluto il massimo e soprattutto nella fase dell’adolescenza non era facile per me capirlo, poi con l’esperienza e lo scorrere del tempo tutto è stato più chiaro.
Dopo aver conseguito la laurea e poi il Master in Economia cominciai al lavorare presso la Price Water House di Milano ma non mi sentivo appagato al 100% quindi tornai a casa. Volevo umilmente chiedere a mio padre di poter entrare nella sua cucina. Era incredulo. Da quel momento sono passati 17 anni circa e da quella cucina non ne sono più uscito. 

Quando un padre è anche un “modello di vita” come si affrontano gli scontri generazionali? I progetti e le pianificazioni per futuro e i cambiamenti necessari, partono da idee concordate in sintonia o dibattute e negoziate? 
Mio padre è sempre stata una persona estremamente intelligente per cui mi ha seguito in ogni mio passo senza mai essere invadente ed ha saputo fare un passo indietro quando le sue idee non coincidevano con le mie.
Siamo due generazioni a confronto che portano avanti gli stessi progetti e anche quando ci sono punti di vista differenti, si lavora insieme con orgoglio e determinazione perché l’obiettivo è comune e questo è molto importante.


Heinz Beck racconta che “La cucina è l’universo raccolto in un piatto di 23 cm”, cosa c’è nel tuo universo ?
Per me un piatto deve essere innanzitutto creato con l’utilizzo di materie prime ed ingredienti eccellenti. Un piatto deve poi farsi portavoce della vita, della cultura, della storia di un popolo.  Deve essere un messaggio d’amore.
L’ospite che ha scelto di venire al Don Alfonso, e che arriva dalle parti più disparate del mondo, va rispettato ed onorato ed è per questo che cerco di far sì che ogni mio piatto rimanga impresso nella memoria dei miei ospiti così come rimane impresso nella loro mente la visita ad un museo o ad un monumento.


Un piatto per Ernesto Iaccarino nasce dall’ “ingrediente” o dal tentativo di regalare autentico piacere al palato? 
Senza ingredienti eccellenti non sarei mai in grado di regalare autentici piaceri per il palato.


Noi italiani abbiamo uno strumento affinato che altri popoli non hanno: il palato. Mille papille gustative abituate, forgiate ed educate da sempre ad assaporare il meglio della gastronomia mondiale. E’ così difficile accontentare un palato tanto allenato? Cosa ne pensa Ernesto Iaccarino? 
Il palato è una componente importante ma ciò che è ancora più importante è la nostra cultura gastronomica, il bagaglio che ci portiamo dietro che è fatto di tante componenti: profumi, sapori, gesti, emozioni e tutto questo fa parte della nostra storia, dei nostri costumi, delle contaminazioni millenarie che abbiamo avuto nei passaggi di tanti popoli, negli scambi commerciali. È importante l’approccio con altri popoli, con altre culture gastronomiche; un approccio che deve essere spinto da curiosità ed umiltà. Solo così l’orizzonte si allarga.


Oggi in Italia è difficile trovare un ristorante di tradizione, sono sparite le lunghe cotture, gli avanzi, la cucina povera e il quinto quarto: c’è una speranza di recupero? Al futuro che passato consegniamo?
Il futuro è già il presente. Amo citare a questo proposito una frase che è l’incipit del nostro menu.   "Solo dopo aver studiato, approfondito e rispettato la tradizione, si ha il diritto di metterla da parte, sempre però con la consapevolezza che le siamo debitori, per lo meno, d’avere contribuito a chiarirci le idee.
Naturalmente, se si resta ancorati al passato, la vita che continua diventa vita che si ferma ma, se ci serviamo della tradizione come di un trampolino, è ovvio che salteremo sempre più in alto".
Sì, le cotture lunghe sono sparite perché una volta era una necessità tecnica. Non c’erano i frigoriferi, non c’era il ghiaccio, quindi le materie erano ecologicamente sane ma meno fresche. Per esempio il pesce pescato veniva lasciato per ore in barca sotto al sole. Quindi effettivamente in passato, cucinare per lunghe ore, stordire le materie prime, era un’esigenza. Oggi abbiamo tanta attenzione, l’ausilio di nuove tecnologie, usate al servizio della qualità. Credo che se c’è rispetto per la natura, per la biodiversità e per la storia di ciascun popolo, allora potremmo consegnare ai posteri un futuro di qualità.




(foto dello chef: sito web "Don Alfonso")

Pietro Zito, il culto dell'olio tra il sacro e il profano




Siamo tornati a Montegrosso per ritrovare Pietro Zito e la Puglia più vera fatta di ulivi e di olio fragrante. Quello buono, quello semplicemente spremuto, quello degli uomini onesti e fidati perchè qui, dicono, l'olio è una cosa seria.
Ci troviamo ad Andria e in questi luoghi fare olio significa fare casa, costruire ricordi e memoria da portarti in giro per il mondo, con la bottiglietta in valigia come fa Pietro nei suoi lunghi viaggi all'estero.
Un giro di quell'olio e sei subito a casa rassicurato dal profumo dell'erba appena tagliata, dal cardo o dal carciofo e da quella salvia o dal pepe che ti svela quanto piccante sarà quell'oro colato sulle tue orecchiette di grano arso, ricotta dura e pasta di olive cotte sotto la cenere e leggermente affumicate.

Il piatto caldo in cui Pietro ci serve il suo piccolo capolavoro ne esalta il profumo ed è essenziale per gustare tutta la fragranza dell'extravergine versato generosamente: una magica alchimia tra l'olio e la preparazione.
E quando lo chef ci propone l'assaggio della ricetta attraverso l'uso di oli diversi, il gioco degli abbinamenti cambia l'identità del piatto e l'olio diventa il protagonista assoluto del sapore e dell'equilibrio.




Il primo extravergine nel piatto è monovarietale, ottenuto dalla cultivar Peranzana. Il suo fine e delicato sapore vegetale di foglia di pomodoro, mandorla fresca ed erbe aromatiche, crea un connubio perfetto tra il sentore di grano arso e l'affumicatura delle olive cotte sotto la cenere. I sapori si fondono e si celebrano in uno scambio di equilibrio e bilanciamento dal gusto continuo e circolare.




E poi c'è lei: sua maestà la Coratina. Austera, amara e piccante, con sentori di carciofo e cardo, foglia di oliva e erbe fresche appena tagliate. 
La potenza e la struttura complessa di quest'olio sposano l'amaro della pasta di olive e l'affumicatura del grano arso esaltando la persistenza e l'intensità degli ingredienti.   

Quando l'olio è un ingrediente e non un condimento come nella cucina di Pietro Zito, cominci a credere che ci sia un legame indissolubile tra il luogo e la tavola, tra l'olio e l'onestà, tra quegli alberi e quegli uomini che coltivano, raccolgono, spremono e ottengono un semplice succo di vita. 

Sono acqua, pane, vino e olio i simboli cristiani che quotidianamente la cucina degli antichi sapori consacra nel rito della nutrizione. Ed è per questo che ogni volta che vai a trovare Pietro ti riporti a casa il cuore, le radici e quell'olio che accompagna tutta la nostra vita tra il sacro e profano. 






(foto dello chef: sito web Pietro Zito)

Interviste dal futuro: Gaetano, l'altro Torrente




Per capire il futuro bisogna intervistarlo ed io l'ho fatto in una serie di incontri con alcuni figli dei più famosi e noti chef italiani. Nel loro racconto c'è il futuro dell'alta ristorazione "fatta in Italia", dell'eccellenza, dell'ospitalità in stile tutto italiano, le nuove idee e le attuali tendenze.
Oggi siamo a Cetara: limoni, colature, uomini in mare, terrazze assolate, fritti e Torrente.  Pasquale e Gaetano due generazioni e un'avventura che racconta di un sud che vive senza chiedere nulla a nessuno e che esporta al nord il suo modello di successo.



Sei tu che hai cercato la cucina o è la cucina che ha trovato te? 
Io in cucina ci sono nato. La mia famiglia svolge attività di ristorazione da 40 anni. La cucina quindi mi ha “trovato” già lì. Ad oggi trascorro quasi tutte le mie giornate tra gli impasti della pizzeria e la cucina.


Una infanzia di profumi, sapori, odori. Il ricordo più lontano va anche per te ai giochi sotto il tavolo della cucina? 
Passavo molto tempo al ristorante, mi piaceva giocare con l'impasto della pizza e il profumo che ricordo più intenso è quello della cucina dei miei nonni.


Qual è il sapore fisso nella tua mente, la tua “madeleine"? 
Non c’è un solo sapore nella mia mente. Ne avrei tanti ma uno fisso è la lingua alla genovese della nonna materna e uno indimenticabile : i fritti di nonna paterna Gilda, una vera bomba di gusto.


Come si svolge la tua giornata tipo? Raccontacela 
In genere non ho un programma prestabilito ma tutti i giorni sono al ristorante e svolgo la mia attività in base alla linea prevista da preparare.


Genitore, maestro di vita, insegnante: nella vita di un ragazzo è una fortuna avere questi tre ruoli in un'unica figura? Un padre “ingombrante” è una spinta per superare se stessi o solo uno stimolo per superare il “maestro” ? 
Dal mio punto di vista non è una fortuna, anzi è solo uno svantaggio. Non vieni e non verrai mai riconosciuto per quello che fai o che sai fare. Ci sarà sempre chi ti “etichetterà” per figlio di papà Pasquale o per il figlio di qualcuno che è già arrivato al successo. Sicuro però è una spinta in più a fare sempre meglio ma non è per niente facile, credetemi.


Quando un padre è anche un “modello di vita” come si affrontano gli scontri generazionali? I progetti e le pianificazioni per il futuro e i cambiamenti necessari, partono da idee concordate in sintonia o dibattute e negoziate? 
Qui a casa Torrente di solito si dibatte parecchio: le generazioni e i modi di pensare sono differenti però alla fine si trova sempre un punto di incontro per tutti i progetti da realizzare.


Heinz Beck racconta che “La cucina è l’universo raccolto in un piatto di 23 cm”, cosa c’è nel tuo universo? 
La mia è ancora una strada lunga da percorrere per arrivare a quell'universo. C’è sicuro tanto lavoro e studio e ricerca di quel mondo racchiuso in così pochi cm.


Il prodotto è la sola verità e il solo divo della cucina. Non il cuoco, il cui unico compito è rispettarlo fino ad esaltarne la verità” Così parlò Ducasse, ma come trova spazio oggi la libertà di creare e di sperimentare?
La creatività non è una cosa che attiene allo studio. Penso che nasca spontaneamente mentre si lavora su un ingrediente o su una preparazione. Troppo scontato dire che il vero protagonista è il prodotto e la materia prima?


Un piatto per Gaetano Torrente nasce dall’ “ingrediente” o dal tentativo di regalare autentico piacere al palato? 
Nasce dalla materia prima. Si acquista, si pensa, si lavora su quell'ingrediente specifico per poi elaborare una ricetta che sposi il gusto dei consumatori e del cliente.


Noi italiani abbiamo uno strumento affinato che altri popoli non hanno: il palato. Mille papille gustative abituate, forgiate ed educate da sempre ad assaporare il meglio della gastronomia mondiale. E’ così difficile accontentare un palato tanto allenato? Cosa ne pensa Gaetano Torrente? 
Gaetano Torrente pensa, e non se ne vergogna a dirlo, che il 70% degli italiani non sappia mangiare. A volte capita di essere condizionati e suggestionati dalle mode, che esistono anche in cucina, dalle nuove scoperte dei nutrizionisti e cosi via. Quel che penso è che il vero palato gourmet dell’italiano medio non è cosi poi tanto allenato.


Oggi in Italia è difficile trovare un ristorante di tradizione, sono sparite le lunghe cotture, gli avanzi, la cucina povera e il quinto quarto: c’è una speranza di recupero? Al futuro che passato consegniamo?
Personalmente conosco tanti ristoranti di tradizione e cucina storica. Anzi oggi è tornato di moda. Dopo anni di cucina molecolare si sente un ritorno alla storia della vera cucina italiana. Forse cambiano i metodi di cottura e le tecnologie a disposizione ma tutto questo è solo progresso e un vantaggio a favore del gusto.




(foto dello chef: Riccardo Melillo)


Interviste dal futuro: Alberto Corelli, la giovane tradizione




Per capire il futuro bisogna intervistarlo ed io l'ho fatto in una serie di incontri con alcuni figli dei più famosi e noti chef italiani. Nel loro racconto c'è il futuro dell'alta ristorazione "fatta in Italia", dell'eccellenza, dell'ospitalità in stile tutto italiano, le nuove idee e le attuali tendenze.
Il futuro in casa Corelli? Ce lo racconta Alberto, figlio del noto Igles, l'eclettico chef ferrarese di fama mondiale che, con le sue 5 stelle michelin tatuate sul braccio, gira il mondo con la sua visione di cucina circolare, organizzando eventi di grande rilievo internazionale.



Sei tu che hai cercato la cucina o è la cucina che ha trovato te?
Da che ho memoria ho sempre vissuto tra in cucina, fin da piccolo giravo incuriosito tra i fornelli e i banconi della cucina di mio padre, e quando potevo mi prestavo a preparare qualche piatto. Ricordo che i clienti rimanevano stupiti a guardare un bambino di 10 anni che spadellava e impiattava, tanto che una volta mi fecero autografare 6 libri su richiesta di alcuni ospiti del ristorante.


Una infanzia di profumi, sapori, odori. Il ricordo più lontano va anche per te ai giochi sotto il tavolo della cucina? 
La prima volta che ho cucinato è stato all'asilo, quando mio padre venne a fare un corso sulla pizza per noi bambini. Mi ricordo tanti taglieri verdi e tanti coltelli, ovviamente in plastica, in quella occasione si stendeva, con entusiasmo, l'impasto per la successiva cottura in forno. Da allora in poi fu un susseguirsi di eventi che inevitabilmente mi hanno portato a lavorare in cucina con mio padre.


Qual è il sapore fisso nella tua mente, la tua “madeleine"? 
Non ho un sapore fisso, ma tanti sapori, colori e gusti diversi perché ogni piatto, ogni preparazione che ricordo nella mia mente ha differente carattere ed espressività. Ho avuto la fortuna di avere esperienze sensoriali più ampie rispetto ad altri giovani chef e per questo mi ritengo fortunato.


Come si svolge la tua giornata tipo? Raccontacela 
La maggior parte del mio tempo la dedico ancora allo studio, inoltre collaboro con mio padre sia al ristorante che per gli eventi esterni. Recentemente siamo stati a Singapore per organizzare importanti eventi di gala. Attualmente lavoro anche come private e personal chef. Cucino a domicilio, dopo aver concordato il menù e fatto la spesa, eseguo le preparazioni a casa dei miei clienti. Mi piace esprimere la creatività attraverso i miei piatti in queste occasioni speciali.


Genitore, maestro di vita, insegnante: nella vita di un ragazzo è una fortuna avere questi tre ruoli in un'unica figura? Un padre “ingombrante” è una spinta per superare se stessi o solo uno stimolo per superare il “maestro” ? 
Certamente è una grandissima fortuna avere un padre singolare come Igles Corelli ma come in tutte le cose ha il rovescio della medaglia. Ad esempio: le “aspettative”. So, fin d’ora, che devo impegnami per dare il 110 % di me stesso ma avere il privilegio di possedere un'enciclopedia gastronomica vivente accanto a me ogni giorno è un grande vantaggio per crescere e migliorare continuamente.


Quando un padre è anche un “modello di vita” come si affrontano gli scontri generazionali? I progetti e le pianificazioni per futuro e i cambiamenti necessari, partono da idee concordate in sintonia o dibattute e negoziate?
Tra di noi c’è sempre comunicazione, dialogo e affinità di intendi quindi non ci sono mai scontri generazionali cosi come per i nostri progetti futuri. Inoltre mio padre mi ha sempre sostenuto e aiutato senza mai imporsi sulle mie scelte che sono da sempre assolutamente autonome e libere. E per questo lo ringrazio.


Heinz Beck racconta che “La cucina è l’universo raccolto in un piatto di 23 cm”, cosa c’è nel tuo universo? 
Il mio universo è in continuo divenire e sviluppo. Sono consapevole che la cucina oggi è un mondo in crescita costante e non si può rimanere fermi e chiusi in stereotipi del passato. E per questo dico sempre: chi rimane indietro non ne esce vivo.  Io, in quei 23 cm, dovrò ancora metterci tanto.


“Il prodotto è la sola verità e il solo divo della cucina. Non il cuoco, il cui unico compito è rispettarlo fino ad esaltarne la verità” Così parlò Ducasse, ma come trova spazio oggi la libertà di creare e di sperimentare?
Anche per me la materia prima è fondamentale.  Igles docet: deve essere di prima scelta e sopratutto il “cuoco” ai fornelli deve sapere come prendersene cura.
Lo spazio per creare al giorno d'oggi, grazie alle nuove tecnologie, in cucina esiste e personalmente non mi è difficile sperimentare. L’importante è avere una solida base di studio e conoscenze tecniche, solo cosi la creatività può trovare il suo spazio.


Un piatto per Alberto Corelli nasce dall’ “ingrediente” o dal tentativo di regalare autentico piacere al palato?
Per Alberto Corelli il piatto parte dalla “materia prima” per poi sperimentare e provare abbinamenti, tipi di cotture, forme, sapori e colori che devono avere l’equilibrio perfetto per stupire il palato.


Noi italiani abbiamo uno strumento affinato che altri popoli non hanno: il palato. Mille papille gustative abituate, forgiate ed educate da sempre ad assaporare il meglio della gastronomia mondiale. E’ così difficile accontentare un palato tanto allenato? Cosa ne pensa Alberto Corelli? 
Penso che l'Italia sia il vero "banco di prova" per ogni cuoco, non solo italiano, che decida di aprire una attività di ristorazione o che abbia voglia di fare il mestiere di chef . Se hai successo con in un mercato esigente come il nostro allora puoi decidere di lavorare e avere un riscontro positivo anche all'estero.


Oggi in Italia è difficile trovare un ristorante di tradizione, sono sparite le lunghe cotture, gli avanzi, la cucina povera e il quinto quarto: c’è una speranza di recupero? Al futuro che passato consegniamo? 
La vera cucina italiana, quella delle lasagne, della carbonara, del ragù, della trippa, non trova una generosa offerta in quasi tutto il territorio nazionale.
Le nuove tendenze della ristorazione rispecchiano lo stato attuale delle richieste : vegane, vegetariane, raw food con le relative contaminazioni.
Oggi la nuova generazione di chef tende ad “innovare" la tradizione per via delle superate, classiche, lunghe cotture e del nuovo stile di vita “sano e naturale”, ma sono consapevole che senza la storia della cucina italiana tradizionale non ci sarebbe da rinnovare e migliorare nulla.
Al futuro bisogna lasciare l’unica cosa che ci distingue e il resto del mondo ci invidia : la cura e l’attenzione per le nostre materie prime e le mille varietà del nostro comparto agroalimentare.





(foto dello chef: @ascuoladigusto )

Cult food: "Sa Casada", mille anni di storia casearea




L’antropologa alimentare Alessandra Guigoni ci parla della sua passione per i formaggi e della “Casada” golosità cremosa e vellutata, un prodotto caseareo ammesso di recente tra le nuove P.A.T. (prodotti agroalimentari tradizionali) della Sardegna.


L’Italia è il paese delle eccellenze enogastronomiche: questo non è solo un mantra ripetuto all’infinito dagli addetti ai lavori ma è la realtà che viviamo ogni giorno. Parlaci della “Casada”, il prodotto lattiero caseario sardo di cui hai curato, con successo, l’iscrizione nel registro dei PAT: ci hai creduto sin da subito?
Sì, da subito. Ha un sapore delizioso ed è un prodotto millenario, antico quanto l’allevamento di capre, pecore e mucche. Appena l’ho conosciuto, dalla casara Maria Atzeni, me ne sono innamorata. Mi sono immaginata una donna preistorica, una donna nuragica, che dopo aver notato con quanto piacere l’agnello succhiasse il latte materno abbia pensato: chissà se è buono anche per la mia famiglia… e l’abbia scaldato sul fuoco, scoprendo con grande sorpresa che il colostro coagula già a 70° e diventa una specie di budino; a quel punto si può aggiungere del miele o gustarlo così, o ancora un pizzico di sale, ed è un alimento assolutamente nutriente e digeribile. Non per nulla il colostro è l’alimento esclusivo di tutti i mammiferi lattanti, contiene molte proteine, Sali, vitamine e offre una protezione passiva al lattante, avendo gli anticorpi materni. Preparare sa casada non richiede l’abilità che necessita la caseificazione del latte, e inoltre è un modo intelligente di smaltire il latte colostro in eccesso, che non viene succhiato da agnelli e capretti, e che non si presta, per le sue caratteristiche chimico-fisiche, alla caseificazione ordinaria. Infatti il colostro costituisce un alimento in molte culture, da quelle scandinave e a quelle indiane. L’ho spiegato nell’Enciclopedia della Oxford University che uscirà a novembre negli Stati Uniti, dedicata al formaggio, the Oxford Companion of Cheese. Finalmente sa casada diventerà nota in tutto il mondo, non vedo l’ora. Il formaggio è una delle tue passioni.


Hai da poco frequentato con successo il corso Onaf, un master per assaggiatori dei prodotti caseari. Hai qualche curiosità da rivelare a noi consumatori? Gli intolleranti al lattosio devono rinunciare al piacere della degustazione? 
Gli intolleranti al lattosio ormai possono scegliere tra una pletora di formaggi a bassissimo contenuto di lattosio, ma persiste il problema dell’origine del latte, per alcuni formaggi. Io consiglio di scegliere formaggi artigianali, in cui gli animali siano stati a lungo al pascolo e dunque il latte sia di alta qualità. Inoltre quei formaggi garantiscono che ci sia stato un trattamento più etico degli animali stessi.


Noi italiani abbiamo uno strumento affinato che altri popoli non hanno: il palato. Mille papille gustative abituate, forgiate ed educate da sempre ad assaporare il meglio della gastronomia mondiale. E’ così difficile accontentare un palato tanto allenato? 
Dovrei dire di sì, per la regola della captatio benevolentiae, ma ti rispondo di no. Gli Italiani mediamente non hanno consapevolezza di ciò che mangiano, non distinguono un prodotto di eccellenza da uno di scarto, non hanno basi di educazione alimentare, storia e cultura del cibo, figuriamoci di analisi sensoriale. I food and wine writer possono veramente fare la differenza e aiutare il pubblico a farsi una cassetta degli attrezzi che serva loro a capire cosa è e come si legge una etichetta, cosa significa tracciabilità, cosa è la dieta mediterranea e come è fatta la piramide alimentare e via discorrendo.


Intervista ad Alessandro Rapisarda, lo sfidante italiano per il titolo mondiale S.Pellegrino Young Chef 2016




Sfidare altri giovani chef di talento provenienti da tutto il mondo e vincere il titolo mondiale del San Pellegrino Young Chef 2016, sarà questo l’obbiettivo di Alessandro Rapisarda nella giornata conclusiva del prestigioso concorso che si svolgerà a Milano il 12 ottobre prossimo.
Lo young chef del Cafè Opera Hotel a Recanati, dopo la conquista del titolo italiano con il suo Risotto alla Marinara, preparazione da tre Stelle Michelin (cit. Uliassi), affronterà la competizione più importante della sua vita affiancato dal mentore Davide Oldani.
Non ci resta che augurare ad Alessandro di salire sul podio per un ennesimo successo tutto italiano. Con la recente vittoria di Massimo Bottura e la sua Osteria Francescana come miglior ristorante al mondo potremo ribadire che il cibo siamo noi, siamo noi la vera e unica fine world dining.
Lo abbiamo intervistato per voi prima dalla finale mondiale.
Forza Alessandro e W l'Italia.




Essere chef è essere soprattutto imprenditori di se stessi. Tu quando hai scoperto di avere talento per questa professione?
Investire su se stessi presuppone la consapevolezza delle proprie capacità e sicurezza di sé. E io ho sempre avuto una passione sfrenata per questo lavoro fin da quando ero bambino. Questo mi ha portato a vivere in “simbiosi” con la cucina e con gli ingredienti creando un legame che ormai è indissolubile. Il talento e l'amore per questo lavoro ho capito di averli da sempre. Fa parte di me e della mia personalità. Una dote questa che mi ha permesso di arrivare in finale e vincere.


Qual è la difficoltà maggiore che incontra un apprendista cuoco durante i primi anni di formazione?
Le difficoltà sono molte e la gavetta nei primi anni di un apprendista è veramente impegnativa soprattutto nelle brigate delle grandi cucine. Qui, tra i giovani chef, c’è molta competizione ma questo serve da stimolo per migliorarsi. Io penso che l’umiltà debba essere alla base di una professione e soprattutto di quella in cucina.


Vivere e lavorare in una regione come le Marche, al confine tra la storia e il futuro, ha favorito la tua crescita professionale?
In effetti le Marche, sono state sempre una linea di confine tra le storiche regioni simbolo di una rinomata Italia gastronomica (Emilia Romagna – Toscana ) e un futuro tutto da costruire. Ma questi ultimi anni l’hanno vista protagonista di una crescita considerevole soprattutto nel settore agroalmimentare: imprenditoria giovanile, idee innovative, chef e ristoratori più consapevoli dei prodotti che offre il territorio, hanno fatto delle Marche una delle regioni più all’avanguardia e competitive d’Italia. Per questo motivo mi sento molto fortunato e compiaciuto di questa riscoperta realtà territoriale. Cercherò in futuro di contribuire alla promozione della mia regione rispettando le materie prime che mi offre dal mare, colline e alture.


Il piatto del podio è stato il tuo “Risotto alla Marinara”. Titolo semplice per un preparazione molto complessa, raccontaci come nasce.
Il mio Risotto alla Marinara lo considero un piatto della memoria olfattiva e gustativa che ha il massimo rispetto della tradizione. Quando ho creato questa ricetta ho pensato ad un piatto che potesse rappresentare l’Italia e che avesse lo scopo di fare comprendere ai giudici la mia filosofia di cucina che è: rispetto della materia prima, bilanciamento dei sapori, delle forme e dei colori. La mia ricetta non è “elaborazione” ma semplice “estrazione” della essenza degli ingredienti utilizzati: ostriche, vongole, cozze selvatiche, seppie, cannocchie. Inoltre: l'acqua di pomodoro, il gel di clorofilla, la polvere di semi di angelica e pepe sansho giapponese, il succo di yuzu ed infine erbe e fiori ne fanno una vera fine dining. Qui c’è l'anima di Alessandro Rapisarda.


Qual è il tuo prodotto marchigiano del cuore, quello che mangeresti ogni giorno?
Il mosciolo selvatico di Portonovo. Infatti non poteva mancare nella mia ricetta del cuore, quella della vittoria.


Mille correnti tra cui navigare: veganesimo, vegetariani, crudisti, la teoria dei 5 elementi (legno, fuoco, terra, metallo, acqua), la filosofia dei contrasti ( amaro dolce salato..), le calorie e la nutrizione. Come rimane a galla in questi mari uno “young chef” ?
Si rimane a galla con una sola certezza : quella di saper cucinare al di là delle mode e delle varie filosofie etiche o meno che si avvicendano. Lo studio è alla base della cucina. Ogni chef ha gli ingredienti preferiti, modalità di cotture, tecniche e teorie apprese durante il suo percorso di lavoro ma nei ristoranti bisogna soddisfare e curare e coccolare il cliente. Io questo cerco sempre di farlo al meglio con le mie preparazioni. Inoltre uno young chef deve avere l’umiltà di non sentirsi arrivato. Bisogna fare bagaglio di tutte le vicende e le esperienze e fatte compreso gli errori e andare sempre avanti. E’ solo grazie al duro lavoro e ai sacrifici che si ottengono grandi risultati.


La vita non è la trama di un libro o un film ma a volte ci appare come tale. Come hai vissuto la vittoria del S. Pellegrino Young Chef 2016 Italia?
La mia vittoria è stata la realizzazione di un sogno ad occhi aperti che ho vissuto con entusiasmo e sorpresa e che ha cambiato in meglio la mia vita. Soprattutto mi ha reso più sicuro e consapevole delle mie capacità. Ora mi attendono le finali mondiali ad ottobre e sono ottimista e positivo. Andrà tutto per il meglio. Oldani sarà di grande sostegno e insieme saremo un team perfetto.


Quali altre vittorie hai in progetto per i prossimi anni a venire?
Sono uno “young chef” e ho da vivere mille altre esperienze e altre vittorie. Una a cui tengo molto è l’aspirazione di ogni giovane cuoco: aprire un ristorante tutto mio anche se l’impegno è di grande responsabilità e non so ancora quando ci riuscirò. Ma sarà per me un’altra grande vittoria, un investimento sul mio futuro da chef.


Tre aggettivi per Davide Oldani, il tuo mentore per la finale mondiale.
Serietà, equilibrio, spensieratezza.


Tre aggettivi per Alessandro Rapisarda.
Purezza, follia, maniacalità.




(foto dello chef: pitsfoto.com)


Zanzibar, un viaggio esotico nel cuore della Puglia




Avete voglia di cedere alla tentazione di un peccato di gola? Voglia di dolce?
Un coffee-break? Una sosta ristoro dopo una visita al famoso museo Iatta a Ruvo di Puglia?
Francesco Cantatore e sua sorella Raffaella vi accoglieranno con un un sorriso e una offerta di golosità alla pasticceria Zanzibar, per un viaggio esotico dalle salde radici pugliesi.




Il loro dolce simbolo è il Cuor di mandorla, dolce tradizionale ruvese, realizzato utilizzando materie prime locali come miele, mandorle e fichi prodotti unicamente in agro di Ruvo di Puglia.
Alcune delle ghiottonerie dello Zanzibar sono la versione dolce dei finger food: si possono trovare delle vere torte in miniatura. Il risultato a volte è pura sperimentazione ma vale l'assaggio.

È possibile soddisfare le richieste dei clienti vegani con produzione di croissant e gelato.


 






 Zanzibar
 Ruvo di Puglia (Ba)
 Corso Domenico Cotugno,15
 Tel. 080.3611837

Tradizioni a confronto: la sfida del pasticciotto tra Natale e Alvino




Cosa c’è nelle ricette della tradizione?

Cibo, fame e arte. L’arte povera e contadina che mescola sapientemente gli ingredienti disponibili: strutto, farina, qualche uovo, un po’ di zucchero e fatica.
È così che nasce ogni ricetta che oggi rivisitiamo, quintessenziamo, molecolarizziamo.

Nella tradizione dolciaria settecentesca pugliese c'è l’espressione perfetta di uno dei dolci territoriali più tipici e identitari del Salento: il Pasticciotto Leccese.

Secondo alcuni testi storici : "La prima fonte documentale che testimonia dell'esistenza del pasticciotto nella foggia corrente risale al 1707: come si scopre nell'archivio della Curia Vescovile di Nardò, nell'inventario redatto il 27 luglio 1707 in occasione della morte di Mons. Orazio Fortunato, tra le altre masserizie compaiono: "barchiglie di rame da far pasticciotto numero otto".
Mentre una recente tradizione colloca la nascita del pasticciotto nel 1745 a Galatina nella bottega pasticciera della famiglia Ascalone durante le festività di San Paolo, guaritore delle tarantate.
Leggenda vuole che la ricetta sia nata da pochi avanzi di pasta frolla e crema, magicamente amalgamati e infornati, diventando di nome e di fatto, la colazione ideale dei leccesi e dei turisti di passaggio.

E, da perfetti turisti di passaggio a Lecce, non potevamo mancare la visita a due tra le tappe del gusto obbligatorie, le pasticcerie Natale e Alvino, due miti della produzione di arte dolciaria locale che da sempre si contendono il titolo di “miglior pasticciotto della città” a colpi di materie prime di alta qualità.
Una sfida, dunque, sul filo di lana.

Pasticceria Natale 

Aspetto visivo: di colore chiaro, uniforme, assenti caramellizzazioni e dorature.

Analisi olfattiva: sentori di burro, poco intenso.

Pasta Frolla: friabile ma poco cotta.

Crema pasticcera: al gusto è equilibrata ma un po’ granulosa, sospetto congelamento (vedi taglio nella crema).

Nel complesso: un prodotto artigianale di non straordinaria fattura.
A nostro parere la pasticceria Natale sembra stia dedicando più cura al gelato che alla pasticceria. Particolare importante: viene riscaldato a richiesta.

Alvino 

Aspetto visivo: dorato, caramellizzato, gonfio.

Analisi olfattiva: netta la tipica fragranza della frolla.

Pasta Frolla: friabile, morbida e ben cotta.

Crema Pasticcera: setosa, ricca con aroma di vaniglia e latte fresco.
Buono l’equilibrio zuccherino, un filo appena sopra le righe.

Nel complesso: un pasticciotto di ottima qualità.
Apprezzabile il forno a vista in pasticceria che produce a ripetizione pasticciotti e fruttoni ai gusti più svariati. La fila di golosi al banco è sempre garanzia di smercio e freschezza.
E dunque, Alvino vince la sfida per manifesta superiorità.




Il pasticciotto leccese è una avventura del gusto tutta italiana declinata non solo in queste due versioni di eccellenza ma anche in ogni cucina salentina, dove gelosamente ogni famiglia conserva il suo "segreto" non codicizzato da tramandare.

Vangelo secondo Sacher    


Alessandra Guigoni e la mission rivoluzionaria dell'antropologia alimentare




Basta un click per essere su etnografia.it, il blog dell'antropologa ligure Alessandra Guigoni. Occhi vispi, curiosi, attenti, un concentrato di energia e vitalità allo stato puro e tanta voglia di fare, guardare, ascoltare e viaggiare.
Nel suo mondo fatto di mondi, trovano posto il cibo, le biodiversità, la cucina sostenibile e contemporanea, gli ecosistemi culturali e ambientali che si fondono con moda, filosofia e religione. Ma il suo vero culto è soprattutto quello del cibo sardo. 
L'abbiamo intervistata in occasione di un viaggio in Sardegna, dove il destino e il suo carattere forte e determinato l'hanno portata anni fa a vivere e lavorare.


Ti occupi da sempre di antropologia del cibo e nello specifico sardo, tutti vorrebbero sapere perché in un’isola la tradizione culinaria sia prettamente pastorale. Che rapporto hanno i sardi con il mare?

In realtà, a ben vedere, gran parte delle cucine italiane tradizionali è di terra, compresa quella ligure, regione in cui sono nata e cresciuta. Ad esempio la selvaggina era un alimento da re, non il pesce. La carne era in cima ai desideri dei ceti popolari, che ne mangiavano poca, parliamo di età moderna naturalmente. Le cucine “alte” storicamente, sono stata improntate al consumo di prodotti di terra più che di mare. Il pesce era un alimento prevalentemente da poveri, e usato in Quaresima. Solo recentemente la cucina di mare è diventata, giustamente, un must, per la leggerezza, la bontà e la salubrità. Certo ci sono culture gastronomiche regionali in cui il pesce è valorizzato particolarmente, come a Napoli, nelle Puglie, in Sicilia. Del resto si è sempre fatto di necessità virtù, e alcune delle pietanze più straordinarie sono nate per bisogno. Per farti un esempio: in Sicilia c’è un piatto, le sarde a beccafico, che appunto costituiscono una mimesi di un piatto di carne, volatili preziosi, con le umili sarde.
La Sardegna è un’isola a vocazione agricola e pastorale, storicamente, e il mare è sempre stato considerato, a ragione, foriero di guai: dal mare sono arrivati Cartaginesi, Romani, Barbari, Mori, e poi Spagnoli, e infine i Piemontesi, nel Settecento: invasori insomma. Inoltre a parte le numerose razzie barbaresche nel corso dei secoli, le piane costiere con i loro stagni erano ambienti malarici, insalubri. La popolazione pur riconoscendo il valore del mare e delle sue risorse, ha sempre cercato di tenersene alla larga. Sono poche le città sul mare, se fai caso, e fortificate: Alghero, Castelsardo, Cagliari, Carloforte, ecc. sono dotate di ampie mura difensive. “Chi ruba viene dal mare”, recita un proverbio sardo. Però ci sono alcune ricette tipiche sarde che prevedono il pesce, come sa burrida cagliaritana, che è di origine medievale. Si fa con il gattuccio di mare, le noci e l’aceto. Da provare!
Oggi tutto è cambiato e trovi ottimi pesci e molluschi cucinati splendidamente in tutta l’isola. Ma quando arriva l’ospite non gli si prepara una zuppa di pesce o un’orata bensì su porcheddu, cotto lentamente per ore all’aperto, e a fine pasto una fetta di pecorino sardo 


I matrimoni sardi e le feste di paese hanno in sé il culto della socialità e della condivisione del cibo: quanto è importante per un popolo riconoscersi in un piatto?

Direi che riconoscersi in un piatto è fondamentale. Tutti noi abbiamo bisogno di identificarci in qualcosa, e i consumi alimentari, al giorno d’oggi, marcano le nostre identità individuali e collettive. Siamo ciò che consumiamo e consumiamo ciò che desideriamo diventare.
Certi cibi sono status symbol, e attraverso il loro consumo le persone demarcano la propria posizione socio-economica, pensa solo ai cibi di lusso! I sardi non fanno eccezione, nella logica che guida i loro consumi. I famosi spuntini in campagna, che in realtà sono pranzi a sette portate, pensa alle feste patronali (Sant’Antonio, San Marco, San Giovanni), che sono molto sentite, pensa al carnevale, che è festeggiato in ogni paese e città dell’Isola, con riti e con dolci come zipppulasparafrittos, bugnolos ecc. e soprattutto pensiamo ai riti di passaggio individuali, come battesimo e matrimonio: sono momenti rituali in cui il cibo condiviso, donato, ha una importanza capitale.


Che differenza c’è tra la cucina sarda, quella continentale e il resto del mondo?  


Bella domanda. Come sai vivo in Sardegna da 23 anni, e sono genovese. Penso di conoscere abbastanza bene la cucina sarda, anche se ogni giorno scopro qualcosa di nuovo e di entusiasmante, e il mio sguardo da “fuori” mi ha permesso, forse, di notare cose che spesso si danno per scontate e normali. Posso dirti che l’insularità ha determinato due fenomeni interessanti e correlati: la conservatività della cucina sarda e la capacità di “sardizzare” gli elementi esterni.
Gli esempi di conservatività sono tantissimi! Il patrimonio agroalimentare sardo conserva prodotti, pietanze e biodiversità scomparse altrove. I dolci ne sono un esempio lampante: ne esistono più di 120 tipologie, la seada è solo uno di essi, e alcuni sono assolutamente straordinari, veri e propri gioielli di pasta di mandorle e zucchero di origine seicentesca.
La capacità di rendere locale, personalizzandolo, ogni elemento sardo lo riscontriamo ad esempio con le piante americane, arrivate dopo la scoperta di Colombo, in Europa e in Sardegna. Il pomodoro è un jolly della cucina sarda, e i pomodori secchi sardi sono straordinari; con le patate gli ogliastrini hanno saputo riempire i culurgiones (ravioli a sacchetto) rendendolo un ripieno gustoso e unico nella sua semplicità e umiltà della materia prima. 


La Sardegna e il pecorino, una storia d’amore millenaria. Raccontacela in quattro righe.

Solo 4? Impossibile! La Sardegna, lo sai, ha ben 3 DOP basate sul pecorino: il Pecorino romano, il Pecorino sardo e il Fiore sardo. L’allevamento delle pecore è millenario e la pecora sarda ha delle caratteristiche molto positive sia come animale da latte sia come animale da carne. Il latte ovino viene lavorato da oltre 80 tra caseifici industriali e minicaseifici ed esistono, oltre ai classici pecorini, anche dei prodotti molto innovativi, come erborinati, a crosta fiorita, a crosta lavata, a crosta e pasta conciata sempre derivati da latte di pecora (o capra). Una casara, Maria Atzeni, produce anche una mozzarella ovina di assoluta bontà.
Ma l’isola non è solo pecorino: si producono dei caprini molto interessanti, come quelli di Monica Saba, e dei formaggi vaccini, come il Casizolu, che è anche presidio Slow Food, di assoluta attrattiva.
Le fonti storiche parlano di esportazioni dei formaggi vaccini e ovini sardi sin dal XIII secolo, perciò non stupisce che ci siano decine di PAT (prodotti agroalimentari tradizionali) sardi dedicati ai prodotti lattiero-caseari. E a luglio si aggiungerà un nuovo PAT alla numerosa famiglia, a cui ho lavorato personalmente. Una sorpresa, di cui se vuoi riparleremo quando uscirà la notizia sulla Gazzetta Ufficiale. 


Siamo portati a pensare all’antropologo come allo studioso del passato. Ma esiste anche una antropologia moderna e applicativa. A questo proposito: qual è la differenza tra il marketing tradizionale e il marketing antropologico? Quale ha più successo? 

L’antropologo è immerso nella contemporaneità, se è un bravo antropologo, e può studiare il passato ma per capire il presente. Il marketing è una frontiera in cui talvolta mi trovo a operare ma rimane per me, appunto, una frontiera. A volte certo marketing è un po’ fuffa, e io mi ritengo una persona troppo concreta, una che parte sempre dalla materia prima e dallo studio della storia e della cultura del prodotto per valorizzarlo. Mi piace il foodtelling, applicare lo storytelling al mondo del cibo, utilizzare categorie e concept antropologici per valorizzare produzioni locali e produttori. Se così facendo faccio anche marketing oltre che ricerca/azione ben venga, perché al giorno d’oggi i produttori locali e le comunità del cibo sono schiacciate dalle produzioni globali e dalle multinazionali, e il made in Italy è spesso contraffatto. Qualsiasi strumento sia utile a frenare questi fenomeni è benvenuto. La mia missione è aiutare la comprensione della ricchezza, della storicità, della complessità dei prodotti, le loro caratteristiche meno conosciute, preziose, che aspettano solo di essere valorizzate e fatte conoscere.


In passato era nutrimento, oggi nutrizione. Il cibo lo vogliamo a chilometro zero, sano, biologico e il veganesimo avanza: in chiave antropologica come possiamo definire questo lungo processo storico della alimentazione umana?  


Lo definirei un processo naturale, se non fosse che il cibo è cultura! Mi spiego meglio: da quando l’uomo ha scoperto la cottura dei cibi, ha scoperto la cucina, le materie prime sono state manipolate sapientemente. Dallo stato di natura siamo passati allo stato di cultura. Non mangiamo più prede crude, non raccogliamo frutti selvatici. Alleviamo, coltiviamo, cuciniamo. Ciò accade da millenni. Pensa ai cibi fermentati ad esempio: vino, pane, formaggio. Si fanno da millenni ma solo nell’Ottocento si sono scoperti batteri, muffe e lieviti, e le loro azioni. C’è molta sapienza nell’uomo, e voglia di conoscere e sperimentare. Al giorno d’oggi, in Occidente almeno, dove abbiamo debellato la fame e ci nutriamo per piacere, mangiamo per appetito e non per fame, lo studio del cibo si è sviluppato enormemente e con esso la consapevolezza delle proprietà del cibo. Vogliamo mangiare bene, e cibi salutari, per la nostra salute, alla ricerca della longevità, dell’equilibrio e della sostenibilità ambientale. Non sono fenomeni di massa ancora, ma c’è più attenzione al cibo, e le industrie alimentari, avendo captato il trend, propongono da qualche anno prodotti senza o a basso contenuto di zuccheri, grassi eccetera. Hai visto i prodotti “senza olio di palma” ad esempio? Il dibattito pubblico che si è generato ha aumentato, seppur di poco, la consapevolezza che le aziende produttrici usano grassi di scarso valore ed economici per massimizzare il profitto. 


Possiamo inserire il cibo e la cucina italiana tra i “beni culturali” da tutelare come patrimonio dell’umanità? 


Assolutamente sì. Il cibo è un bene culturale come un’opera d’arte, un monumento storico, un quadro. Tra il patrimonio immateriale tutelato dall’Unesco c’è già la dieta mediterranea e presto altri beni culturali alimentari verranno iscritti. L’importante è capire che i beni culturali alimentari, contrariamente ad un quadro, un gioiello, un monumento, non sono statici, ma dinamici. La dieta mediterranea cambia e cambierà, arricchendosi di saperi e pratiche. Patrimonializzare poi non vuol dire museificare, ma rendere bene comune, fruibile, sensibilizzare l’opinione pubblica, i portatori di interesse, e i decisori. Solo così sopravvivono i beni culturali, “usandoli” con intelligenza, facendoli propri. Sono per l’apertura e la fruibilità di tutto, detesto i monumenti lucchettati. Così non amo chi dice che una pietanza (metti il risotto alla milanese, o la pasta al pesto genovese, o sa panada sarda) non si può rinnovare, non ci si può sperimentare sopra, perché “si è sempre stata fatta così”. Studiando sulle fonti storiche, facendo interviste agli anziani, scopri che non è affatto così. E poi la tradizione, parafrasando il compositore Gustav Mahler, è conservare il fuoco, non adorare le ceneri. 



La tua professione ti definisce tecnologica e dinamica e, nello stesso tempo, hai una materia di studio di grande rigore e precisione storica: come convivono in te queste due anime così diverse? 


Chissà se convivono! Scherzi a parte credo che in un mondo sempre più settorializzato, in cui i saperi sono frammentati, occorrano anche persone che cercano di offrire una visione d’insieme, e sappiano legare le varie anime dei food studies. Il rischio è una certa superficialità, ovvio. Ma c’è un rischio maggiore, che non voglio correre: l’accademismo e la parcellizzazione delle conoscenze e competenze. La torre d’avorio, la specializzazione estrema, lo snobismo. Credo che chi studia abbia il dovere di diffondere, divulgare e far conoscere il più possibile ciò che sa e ha faticosamente capito. C’è tanto lavoro da fare, i social ad esempio sono pieni di leggende metropolitane, superstizioni e teorie antiscientifiche sul cibo, idee e concetti che molti prendono per oro colato. Non siamo tanto diversi dagli uomini medievali in fondo, a fronte di tanta tecnologia abbiamo ancora un pensiero pre-moderno, magico, a-scientifico. 



Hai scritto tanti libri. Dovessi sceglierne di scrivere uno su un argomento diverso dalla tua professione, cosa tratterebbe? 


Mi sto appassionando all’analisi sensoriale e alle proprietà organolettiche dei prodotti. Da poco ho fatto il corso ONAF per assaggiatrice di formaggi. Ne vado orgogliosa perché’ sono partita da un profilo di studiosa, 20 anni fa, e oggi mi trovo a poter considerare e valutare un alimento dalla A alla Z, è una sensazione bellissima per chi crede nel potere della conoscenza, nel valore dello studio. Credo che ci sia poca consapevolezza sul cibo, e si mangi troppo e male, in generale intendo. Credo che le persone conoscano veramente poco del cibo che mangiano, storia, cultura, ingredienti, provenienza, proprietà, rischi e vantaggi nel mangiarlo, aromi e gusti del cibo di qualità. Mi piacerebbe scrivere qualcosa, ma insieme ad altri esperti, su questo tema. Chissà!


Tre domande alle quali rispondere con una sola parola: cosa non manca mai nella tua dispensa? Qual è il tuo piatto forte? E quello che ti piacerebbe imparare a cucinare? 


Non manca mai il formaggio sardo, anzi i formaggi.
Direi che cucino poco, mi piace preparare la pizza, la considero una genialata, che infatti da Napoli è diventata un prodotto globale, amatissima in tutto il mondo, pur rimanendo un simbolo dell’italianità. Farcisco la pizza con ingredienti sempre diversi, mi diverto a sperimentare, mescolare.
Mi piacerebbe imparare a preparare alcuni dolci complessi, a decorare con la ghiaccia reale. Ho amiche che producono dei veri e propri capolavori, mi incantano. Mi accontento di studiarli, fotografarli, farli conoscere e valorizzarli. A ciascuno il suo.


L’ultima domanda è, in realtà, un commento ad una citazione che porto sempre nel cuore: La Sardegna è “Terra antichissima e forte dove tutto ha contorni netti e puliti, dove tutto è definito, colori, forme, amicizie, dove ancora esistono i valori umani, dove l'uomo si sente uomo, e dove la natura ci fornisce a piene mani la più ricca collezione di scultura forgiata e scolpita dal genio universale. La Sardegna è un amore che entra sotto la pelle."
 Andreas Fiore

È una bellissima citazione, non si può aggiungere altro se non… grazie, vi aspettiamo in Sardegna. 





Simona Natale: l'Es, l'Jo e il superIo




Se c'è una icona nel mondo del vino al femminile il suo nome è Simona Natale. Anima della prestigiosa azienda vinicola “Gianfranco Fino Viticoltore”, insegna della Puglia d’autore, autrice, con il suo Gianfranco, del più bel racconto del vino del sud : l’Es.  Il suo nome è legato per sempre al miracolo della meravigliosa terra di Puglia che la fortuna le ha dato di possedere, coltivare e abitare.
Una donna “singolare e speciale” come le domande che abbiamo deciso di formulare.


"Come è vero che nel vino c’è la verità ti dirò tutto, senza segreti." (W.Shakespeare)
Simona, come è vero che nel vino c’è la verità mi dirai tutto, senza segreti? Mai avuto segreti nella mia vita. Si dice che la mia faccia ed i miei occhi parlino più della mia lingua e questa non si fa scrupoli ad essere sincera.

Alcuni non diventano mai folli. Il loro vini sono noiosi.” (C. Bukowski)
Quanta follia e quanta razionalità ci vuole per fare fare un vino come l’Es? L'Es di Freud è per sua definizione la passione pura, l'istinto. E' energia vitale. Io e Gianfranco siamo notoriamente due folli ed a questa follia abbiamo dedicato la vita. Ma non ci siamo mai pentiti.


"Il miglior fertilizzante per la vigna è l’ombra del proprietario." (Anonimo)
Quanti giorni l’anno passi tra i vigneti?
In autunno ed in inverno, io davvero molto pochi. Gianfranco invece quasi ogni minuto, mentre in primavera ed in estate ogni giorno che posso sono in vigna. L'alba e il tramonto sono i miei momenti preferiti.

"In una bottiglia di vino ci sono più parole che alcol." (E. Persichetti)
Scegli tre parole per descrivere il tuo vino
Sacrificio, dedizione, amore.

"Sempre pronto a una nuova idea e ad un antico vino." (B. Brecht)
Il prossimo vino?
"I sogni son desideri.." Tutti dovremmo avere sempre qualcosa ancora da realizzare e da sognare. In tema di citazioni: chi si ferma è perduto!
Abbiamo progetti, programmi e novità.

Et però credo che molta felicità sia agli homini che nascono dove si trovano i vini boni” (Leonardo da Vinci)
Fare il vino ti rende felice?
Immensamente felice. Leonardo da Vinci ha detto il giusto: la felicità si trova dove c'è il vino buono. E' qui la felicità, in terra di Puglia dove la vocazione vitivinicola di questo straordinario territorio, ha scritto negli ultimi anni la storia di una regione che si riscatta dalla fama di essere terra di mera produzione di vini da taglio per essere finalmente "terra che diventa vino" di qualità. Sono fiera e orgogliosa e di aver contribuito storicamente a questo passaggio epocale.

"Con addosso solo le mutandine da bagno, scalzo, con i capelli scarmigliati, nel buio rosso fuoco, sorseggiando vino, sputando, saltando, correndo… così si vive." (J. Kerouac)
Quanto ti ha cambiato la vita il vino? 
Nella mia "prima vita" ho fatto l'avvocato ma oggi con il mio lavoro di vignaiola dico sempre a me stessa: "meglio camminare per le vigne che camminare per tribunali". Quando affondo i passi nel vigneto e nella mia terra ritrovo me stessa, la vera dimensione umana e la serenità che non avrei mai avuto con un altro lavoro... cosi si vive! Mi sento fortunata.

"Una botte di vino può realizzare più miracoli che una chiesa piena di santi." (Proverbio)
E il tuo miracolo è già accaduto? Raccontacelo
Il mio miracolo? Ho incontrato Gianfranco in un momento particolare della mia vita in cui sinceramente pensavo di aver scritto due terzi della mia storia, ed invece lui ha stravolto la mia esistenza, l'ha riempita di colore e mi ha coinvolta in questa incomparabile avventura. Ovviamente non è sempre stato tutto rose e fiori, ma ho imparato tantissimo da ogni esperienza di questo lavoro, ho scoperto soprattutto la mia forza. Nei giorni della vendemmia sono instancabile perché la gioia che mi dà è talmente immensa da ripagarmi di qualsiasi fatica.

Gli uomini sono come il vino. Alcuni diventano aceto, i migliori invecchiano bene.” (Papa Giovanni XXIII)
In vita tua hai conosciuto più aceti o grandi vini?
Bella citazione e bella domanda! Ho conosciuto terribili uomini-aceto ma anche grandi-uomini "invecchiati bene". Fa parte del gioco della vita ed è inevitabile. Scontri dialettici, divisioni intellettuali, conflitti geopoliciti, campanilismo. Ma anche tanto sostegno, solidarietà, consenso e amicizia. Tutto questo aiuta a crescere e a costruire il futuro migliore.

 "A me piacciono gli anfratti bui delle osterie dormienti, dove la gente culmina nell'eccesso del canto, a me piacciono le cose bestemmiate e leggere, e i calici di vino profondi, dove la mente esulta, livello di magico pensiero." (A. Merini)
C’è un lato sexy del vino? 
Il vino rende liberi come la follia, leggeri come i desideri inconsci dei nostri sogni e sensuali perché il vino è passione, è stile di vita che tinge di rosso tutti i nostri sensi.


"Il vino è la parte intellettuale del pranzo." (M. Renault)
E il cibo? Cosa rappresenta nella tua vita?
L'alta cucina ed il vino sono i miei grandi amori. Adoro cucinare ed è anche l'unica cosa che so fare bene in casa. Amo l'arte del ricevere e mi fa piacere ospitare i miei amici e coccolarli con i loro piatti preferiti perché il buon cibo è convivialità e condivisione.

L'America sta diventando una piatta società di vegetariani, astemi e puritani. Io credo nella carne rossa, nel vino e nelle donne.” (J. Nicholson)
Non sei vegetariana, astemia e neanche puritana. Grazie al vino hai conosciuto l'amore o sbaglio?
In realtà ho conosciuto Gianfranco perché desideravo fare un corso di vela. Ovviamente non ho fatto neanche una lezione, ma in compenso ho avuto il privilegio di "frequentare" un corso privato di alta formazione enogastronomica e di amore puro. Questo mi ha permesso di ampliare le mie conoscenze olfattive e gustative assaggiando i migliori tra prodotti e vini di Puglia e dintorni. Utilissimo per il nostro lavoro di vignaioli.

"Come è vero che nel vino c’è la verità ti dirò tutto, senza segreti?(W.Shakespeare)
Simona, come è vero che nel vino c’è la verità mi hai detto tutto, senza segreti? 
No. Ancora non ho detto tutto. In questi anni di lavoro, studio, ricerca, affanni e responsabilità, dove io e Gianfranco abbiamo attraversato e alternato momenti di serenità a quelli di difficoltà, non mi sono mai sentita sola. Questo nostro mondo del vino è una meravigliosa famiglia allargata.
Per mille motivi non ho avuto figli miei, ma quelli dei miei amici sono più che figli per me e loro mi donano immensa felicità.
Io amo il mondo del vino e questo mondo di pazzi mi rende incredibilmente felice!


Vino e Innovazione Tecnologica

La tecnologia non tiene lontano l'uomo dai grandi problemi della natura, ma lo costringe a studiarli più approfonditamente. (A. de Saint...